Questo viaggio tra Nepal e Tibet è stato un viaggio impegnativo.
Bellissimo, indubbiamente, ma impegnativo.
Un viaggio che mi ha fatto mettere in discussione tante cose, che ha scardinato finte (in)sicurezze e che mi ha fatto riflettere su quanto diamo troppe volte per scontata la nostra libertà.
Un viaggio fatto di incontri speciali, sguardi gentili e sorrisi sinceri.
Di panorami immensi e potenti dove tutto riacquista la giusta prospettiva.
Un viaggio che mi ha lasciato però anche un grande senso di tristezza – per non dire rabbia – per quello che sta succedendo in questo angolo di mondo senza che nessuno dica o faccia qualcosa per impedirlo.
Un viaggio di testa, di pancia, di cuore.
Vi parlo allora di questo viaggio tra Nepal e Tibet iniziando dalla fine, come con dei vecchi amici, ripercorrendo il filo dei ricordi e delle suggestioni.
Il cielo in Tibet è così vicino che sembra di poterlo toccare con un dito
Il respiro accelerato, il cuore che batte fortissimo.
Queste sono le sensazioni che ho provato appena messo piede a Lhasa: forse per l’effetto dell’altitudine o forse più per l’emozione di trovarmi finalmente lì.
E usciti dall’aeroporto quel cielo così vicino, così azzurro dopo i giorni trascorsi in Nepal sotto una cappa di umidità e inquinamento.
L’aria finalmente fresca e pura, il sole caldo sul viso e Dawa – la nostra guida – che ci aspettava con in mano due kata, le tipiche sciarpe bianche di buon auspicio.
Benvenuti in Tibet.
L’odore del Tibet è quello delle lampade al burro di yak
Il Tibet ha un odore tutto suo.
E’ quello dei monasteri e dei pellegrini che portano il burro di yak come offerta per alimentare le lampade di devozione.
La prima volta che l’ho sentito è stato all’interno del Jokhang Temple: è un odore forte, intenso, difficile da descrivere.
Un odore che ti entra nella narici, che rimane attaccato ai vestiti, ai capelli.
Un odore che non dimenticherò mai.
Bandiere rosse
In Tibet non c’è casa, non c’è palazzo, non c’è monastero sui cui non sventoli una bandiera cinese.
E se a Lhasa la sfilata impressionante delle bandiere rosse a cinque stelle raggiunge il suo apice con quella (im)posta sul Potala, non da meno provoca una fitta al cuore vedere case tibetane isolate, a volte persino ridotte a ruderi, che portano comunque il vessillo dell’invasore.
Perché è di questo che stiamo parlando.
Della bellissima bandiera tibetana invece nessuna traccia: il governo cinese l’ha infatti dichiarata illegale dal 1950.
A proposito di libertà.
Non è un paese per donne dai capelli chiari
O meglio: se avete i capelli chiari preparatevi ad essere guardate come extraterrestri e a ricevere un sacco di richieste per fare selfie e/o video.
Dai bambini alle ragazzette, dai vecchietti ai monaci (!!!).
E se per la prima mezza giornata può essere quasi – e dico quasi – divertente, poi la situazione diventa noiosa per non dire irritante/imbarazzante.
Non tanto per le richieste esplicite, ma per gli sguardi insistenti o peggio ancora per le mosse da ninja per fare foto e video di nascosto.
Per la serie sette giorni da vip.
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7 GIORNI IN TIBET: IL NOSTRO ITINERARIO DA LHASA AL MONTE EVEREST
Namasté
Occhi gentili che ti guardano, un sorriso appena accennato, le mani giunte: namastè.
Il Nepal è un paese povero, poverissimo, dove i segni del terremoto del 2015 sono ancora ben visibili, con le rovine dei templi e delle case che si mischiano ai mattoni della ricostruzione, le strade disastrate, l’immondizia a cielo aperto e i tantissimi cani randagi.
Ma dove le persone, nonostante le difficoltà di ogni giorno, hanno il cuore grande e lo sguardo limpido.
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Inquinamento e spazzatura, l’altra faccia della medaglia
Il Nepal è un paese straordinario con una cultura millenaria e una biodiversità unica nel suo genere (basti pensare che si passa dal cuore della giungla alle montagne più alte del pianeta nel giro di pochissimi chilometri).
Ma è anche un paese sottosviluppato, sovrappopolato e con una democrazia giovanissima piagata da corruzione politica alle stelle.
Non si può quindi pretendere che i nepalesi abbiano una cultura ecologica che, per ovvie ragioni, passa in secondo piano rispetto alla lotta per la sopravvivenza quotidiana.
Il governo invece dovrebbe impegnarsi di più, regolamentando – per la stessa salute dei suoi cittadini! – le emissioni inquinanti e facendosi carico di smaltire l’immondizia riversata nei fiumi e sui fianchi delle colline.
Ma soprattutto non dovrebbe tollerare che le ricche spedizioni alpinistiche si permettano di inquinare quella montagna che tanto dicono di amare.
Attraversare un incrocio a Kathmandu e sopravvivere per raccontarlo
Kathmandu è la città più incasinata e trafficata che abbia mai visto.
Macchine che fanno tanto di quel fumo che in confronto i nostri Euro 3 sono green, moto che trasportano famiglie intere, pulmini stipati come non mai.
E inutile dire che i sorpassi più fantasiosi qui si sprecano.
La cosa pazzesca è che non esistono nemmeno i semafori, ma ci sono solo dei poveri vigili che dall’alto del loro pulpito si sbracciano cercando di dare un senso ad un traffico allucinante.
Nonostante il casino però, i nepalesi alla guida sono piuttosto tranquilli: nessuno si manda a quel paese e il clacson viene usato più per avvisare che “ehi sto arrivando!“
Se si vuole attraversare, quindi bisogna fare un bel respiro e iniziare ad incamminarsi, lentamente ma in modo deciso.
Chi si ferma è perduto.
Si torna a casa, si torna in Nepal
Eravamo appena arrivati nell’hotel di Gyirong, il piccolo villaggio dove avremmo passato la nostra ultima notte in Tibet.
Senza che me ne accorgessi un pensiero mi ha attraversato la mente: “domani si torna a casa, si torna al Planet, si torna in Nepal“.
E’ stato un attimo, una frazione di secondo ma tanto è bastato per prendere coscienza di qualcosa che in fondo al cuore era già ovvio.
Perché quando si inizia a chiamare casa un pezzetto di mondo, già si fa largo la promessa di un ritorno.
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